Dodici agosto, partiamo alla volta del terzo giorno del Giringiro 2015. Per la prima volta la tappa è a circuito, l’albergo a Merano ci riaccoglierà la sera (il pomeriggio? Boh…) con le sue quasi teutoniche braccia aperte sulla riva destra del Passirio.
L’ingombrante bagaglio resta ad attenderci in camera (deve, oserei dire!), uno pseudozainetto fissato in coda consente – massima resa minima spesa, o ingombro, fate voi… – di avere a portata di mano lo stretto indispensabile.
“Guanti di scorta… sottoguanti… gli antipioggia… i micropile ci sono?”, Sonia mi guarda stralunata, non sa ancora se ridere o meno. Fuori il caldo è potente, il sole picchia pur essendo presto.
Partiamo, un po’ colpito dai pochi approcci odierni al mezzo (finora era stato tutto un “Ah, ma non è un’Harley…”, “Ciao, dimmi e racconta!”, “…ma cos’è??”). Sarà che ho superato l’Alto Adige (cit.) e il carattere nordico impedisce contatti umani eccessivi, forse. O il ciclista del pomeriggio precedente era l’eccezione che conferma la regola. O, ultimo ma non da ultimo, sono zone abituate al mondo custom ed al turismo su due ruote in generale (qui tutto è biker friendly) dove s’è visto di tutto e di più.
Il rumore ci segue attenuato (ho rimontato il db killer; proprio perché abituati al dueruotismo, sulle zone alpine si legge di controlli più fitti e serrati… anche se già so che sarà una preoccupazione esagerata, visto – anzi, sentito – quello che gira nei dintorni. Ma preferisco non avere noia alcuna); Castelbello, Silandro, Lasa. Mentre avanziamo tra i campi di mele ed i cartelli nel bilinguismo, Sonia ogni tanto mi fa “ma è qui che dovevamo arrivare? E’ qui che dovevamo arrivare?”; rispondo negativamente, evito il traffico, scruto il meteo, mi fermo a Prato. Farmacia: mi imbottisco d’antinfiammatorio (ho un orecchio che per l’aria, il vento o chissà cosa, inizia ad infastidirmi. È andato tutto perfetto sinora – qualcun(a) ci sta mettendo la mano – e non posso permettere che un dolorino venga a rompermi le gonadi proprio ora). Giochi di coincidenze a nostro favore: tempo stupendo, traffico che va via via diradandosi (una frana di qualche giorno fa ha bloccato il versante Lombardo all’ascesa e demotivato molti viaggiatori, magari non consapevoli del “terzo versante” svizzero che permette comunque la discesa anche in situazioni simili). A Prato indico La Montagna, “è lì che dobbiamo andare”. Silenzio emblematico.
L’ascesa allo Stelvio da Prato è quella che solitamente viene indicata più ostica, anche se paesaggisticamente mozzafiato (ruscelli, cascatelle, boschi, radure, tutto all’ordine del chilometro o anche meno). Tornanti su tornanti. Canno il primo a destra, cominciamo bene, ma la strada è sgombra. “Occhio al rischio di caduta da fermo in curva, in ascesa; evitare il traffico (incroci tra camper o pullman incastrati sono situazioni critiche)” e amenie simili ho letto finora. In realtà 1000 occhi servono per gli amici ciclisti: capisco che per loro l’ascesa alla Cima Coppi è la Mecca, e forse ben più di noi si guadagnano l’arrivo nel vero senso della parola, ma in salita possono sbandare pericolosamente, mentre in discesa sono missili sfreccianti. Occhio ragazzi!
Il monociclindrico spara e sbuffa, sale senza eccessivo stress nonostante pendenze ed altitudine (da buon onanista mentale ho anche optato in quei giorni per 98 ottani o su di lì); la strada è stretta e il fondo non ottimale (ma un gioiello rispetto a tanti tratti appenninici umbro marchigiani). Curve (rasoiate, coltellate) su curve: non si vede neanche un Power Ranger (ndr, motociclista da supersportiva stradale, spesso caratterizzato da livree fosforescenti ed in tinte con casco e mezzo) nel raggio di… tanto. La montagna vera tutt’attorno, peccato dover prestare tanta attenzione alla guida; alle mie spalle, espressioni di meraviglia e stupore in crescendo continuo. Qualche Suv maledetto, i classici girini scoppiati (che pena, e che stacco invece i loro colleghi plurisorridenti in discesa); a Prato ho cambiato i guanti a mezzo dito, guanti di pelle e sottoguanti in seta che fanno a pieno il loro lavoro (ed anzi il fresco si sente eccome). Ultime svolte, sul rettilineo finale qualche motociclista già arrivato, sulla sinistra, sentendo il rumore e vedendo il mezzo strano esulta ed incoraggia come nel più classico dei tapponi dolomitici.
Arriviamo. Scendo, ma prima della foto di rito passano almeno cinque minuti: due biker di Venezia vogliono una foto della Royalina, un’altra coppia si avvicina e si dice “sì ma falla la foto, sennò non ci credono”. Giovani, questi giocattoli scorrazzano su e giù per il Tibet, occhio alle blasfemie. 2750 metri e spiccioli, sole, 15 gradi circa, sciatori in tuta e scarponi ci passano accanto. Panino salsicciotto e crauti, foto, giro shopping tra le bancarelle per la calamitina da frigo, panorami.
Ultima ma non da ultima, grandissima soddisfazione per me è l’entusiasmo di Sonia: per la mia ragazza lo stereotipo dell’estate è spiaggia, sabbiosa, lettino, sole e stop, ne riparliamo al tramonto. Forse che forse un assaggio di montagna (e che montagna!) vera riuscirà ad incrinare questa tendenza in tendenza (ma il tempo, il tempo a disposizione è sempre tirato e col contagocce… certe cose hanno la loro priorità che viene messa sempre e comunque in secondo piano dietro ai “sacrifici”… ed a che pro? Si vive una volta, e male, brutta cosa avere rimpianti). Si riparte profondamente a malincuore, ma la giornata non è finita.
Tutt’altro. C’è una signora discesa che ci aspetta (e per un guidatore capra come me è preoccupazione ostica… “Faccio almeno una sosta, per i freni…”, mi ripeto). Il versante elvetico aveva anche un tratto sterrato (e per me del brecciolino in terra mi provoca preoccupazioni che manco l’approcciarsi della scadenza di una rata; hai voglia a leggere nei giorni scorsi sul web “si ma è ben pressato, ben curato”) che – che c.. DERETANO! – è stato asfaltato un mese circa prima. Ottimo. Appena scollinato salutiamo il passo con la vista di… un campo da pallone in terra battuta alla nostra sinistra che se potesse parlare, chissà cosa potrebbe raccontare di improbabili partite a quote pseudo andine); qualche chilometro, trovo l’indicazione della strada chiusa per Bormio ma poco male imbocco a destra verso la Svizzera. La “terza via” era stata comunque messa in preventivo inizialmente per le recensioni paesaggistiche da sogno.
L’uscita dal Paese si presenta col più classico dei luoghi comuni: casotto dei doganieri elvetici (nessuno a chiedere “un fiorino” – cit. – , il documento per l’espatrio non è servito), bandiera rossocrociata, mucche al pascolo. Umbraillpass, o Giogo di Santa Maria. La discesa verso Santa Maria in Mustair scorre senza troppi patemi d’animo, unico problema (e mi duole, visto che solitamente rifuggo l’odio atavico che molti provano per i ciclisti) due biciclette in scia costantemente negli specchietti, quella a destra sempre più pericolosamente a ridosso e dal lato sbagliato vicina, tutti e tre con auto davanti a fare da tappo. Paese di Mustair, l’iconografia classica elvetica la fa da padrone (sembra proprio d’essere in Svizzera); riprendo in direzione Val Venosta, m’avvicino al limes dell’Unione Europea.
Casotto della Finanza, mi fermo alla barra dello Stop a terra, da dentro mi si guarda scocciato come per dire “che vuoi?” e un gesto della mano indica d’andare (mentre gli occhi scendono comunque sulla moto. Lascio il Paese delle sigarette, del cioccolato, delle banche (ne ho contate 3 nel rapidissimo transito) e della benzina sottocosto, rientro in Patria. Ah Italia, quanto mi sei mancata, l’Italia è sempre l’Italia, etc etc… Malles Venosta è una bomboniera, vorrei fermarmi ma ho ansia; proseguo, ad un semaforo (ancora??) scatta il verde, salita, e la moto, di poco, alla Pravettoni “s’ impenna” (alè, non mi faccio mancare niente). Le curve della Val Venosta sono stupende, graffi di compasso dal fondo perfetto dentro la classica cartolina da sogno (il tratto da Malles a Curon entra nel novero delle migliori strade mai incontrate in vita mia).
A Curon arrivo malinconico, il parcheggio “Panorama” sembra chiamarmi, entro diretto ed accosto. Sonia mi fa “scendo??”, non dico nulla, con un cenno del capo indico avanti, anche lei ha un brivido. Il campanile. Il lago di Resia nasconde sotto di sé un paesino sommerso, unico indizio è quel famoso campanile da cartolina. Per anni ogni volta occasionalmente se ne vedeva lo scorcio in televisione mia madre sognante faceva “che bello? Andiamo? Come mi piacerebbe…”, e non ve ne dico quando appariva in immagini invernali, raggiungibile a piedi sulla superficie congelata, o quando periodicamente per manutenzione i resti del borgo riemergevano in un contesto quasi fiabesco.
E ogni volta era uno sviare di discorso, ma dove andiamo io e te, ma come facciamo, e il tempo, e il lavoro. E ora sono lì. Scendiamo, foto di rito con lo sguardo fisso dell’ottuso, sigaretta, ancora sigaretta, contemplazione, souvenir, riparto triste. C’è il passo di Resia dietro l’angolo, in un attimo potremmo beccarci l’altro sconfinamento di giornata, un po’ grigi dentro rimettiamo le ruote in dirittura di rientro, ci riavviciniamo alla base. Sluderno, di nuovo Siladro, Naturno, Merano. Albergo, la moto è in garage, la Forst chiama e l’antidolorifico ormai è a distanza temporale di sicurezza. Caldo secco, domattina si riparte, si torna a sud.
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